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Le grandi squadre: il Torino di Gigi Radice

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Il carattere dei suoi interpreti fu capace di creare il collante con i tifosi e con la stessa città nel cui grembo nacque e dimorò l’eterna leggenda del Torino di Valentino Mazzola. Quel Torino fu capace di unire un filo, bello e commovente, con l’altro Grande Torino del passato. Come se idealmente quei leggendari eroi del passato fossero tornati in vita per accompagnare e sostenere le gesta di quelli del presente. Radice instillò nei propri ragazzi una filosofia vincente e più in generale li abituò ad avere coscienza nei propri mezzi. Sì, in un certo senso il Torino si rivelò, per la prima volta, capace di essere un’unica creatura con il suo glorioso passato. Un Toro grintoso e dal carattere indomito.

Il Toro di Graziani e Pulici ebbe la personalità giusta per imporre il proprio gioco contro tutti. In casa come in trasferta. Il modernismo del Torino di Gigi Radice fu un dato reale; l’ispirazione fu l’Olanda e il suo calcio totale. L’Olanda di Cruijff, ai mondiali del 74’, e il suo gioco spettacolare entrarono nella mente del Sergente di ferro Gigi Radice per non uscirne più. Condizionarono il modo di pensare e di fare calcio del grande allenatore lombardo. Gioco a tutto campo, utilizzo quasi esasperato del pressing in modo da togliere respiro all’avversario e poi raddoppi di marcatura e il fuorigioco organizzato con sistematico tempismo.

Il presidente Pianelli costruì una squadra straordinaria e lo fece circondandosi delle persone giuste. Tecnici, figure dirigenziali e calciatori vennero scelti sulla base di precisi parametri. Competenza, impegno, dedizione e cura. E il cuore avrebbe dovuto costituire la giusta leva che tutto accompagna verso il traguardo della vittoria finale.

Pressing, continui movimenti senza palla, scambi fulminei e pronti per ricavare la corsia giusta verso la porta avversaria. Se l’Ajax fu la squadra di riferimento c’è anche da dire che il coraggio del mister, nel lungo periodo, venne premiato. In campo e con i risultati. Lo stesso Radice, tempo dopo, ebbe modo di affermare a tal riguardo: “Il modello era l’Ajax, il calcio totale, nuova luce e visione in Europa. Quel calcio mi ha affascinato subito. Già a Cesena cercavo, diciamo pure con buoni risultati, di portare in campo quelle concezioni. Oddio, è rischioso, non è facile applicare il fuorigioco, far scattare i meccanismi giusti. Ma è molto attraente e riempie di gioia“.

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Superare la Juventus di Parola non era semplice. Quella Juventus era fortissima e con una grande organizzazione di gioco. Lo scudetto arrivò con quarantacinque punti e due punti di vantaggio sulla Juventus. Uno scudetto fantastico perché grandioso fu anche il modo in cui il Toro si fregiò del titolo di campione d’Italia. Al termine di una rimonta ai danni proprio della Juve, che in primavera aveva cinque punti di vantaggio sul Toro. Tre sconfitte consecutive dei bianconeri, la seconda delle quali proprio nel derby di ritorno, consentirono al Toro il sorpasso.

Il Toro, targato Gigi Radice, fu un ostacolo per tutti. La porta era difesa da Castellini il cui appellativo di “giaguaro” riesce a fotografare molto bene le grandi doti tra i pali del campione granata. Il libero Caporale proveniva dal Bologna e a Torino incantò tutti per la tecnica e il tempismo che mostrò nella fase difensiva. Lo stopper Mozzini era un difensore duro, difficile da superare; quasi un muro invalicabile. Terzini erano Santin (a destra) e Salvadori (a sinistra). Santin e Mozzini comandavano la difesa mentre Salvadori, detto Faina, aveva licenza di spingersi in avanti. Santin aveva percorso una carriera egregia in serie A mentre Salvadori proveniva dalla serie C e a Torino divenne un calciatore esperto e forte.

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Il centrocampo lo descrisse bene lo stesso Gigi Radice: “Tre con Pecci al centro, Zaccarelli a sinistra e Patrizio Sala a destra. Zac era centrocampista dal dribbling rapido, volava e batteva con prepotenza. Centrocampista classico ma sapeva fare anche la mezza punta, marcare e impostare e anche altre cose. Patrizio, grandissimo altruista, sempre in aiuto del compagno. Eraldo Pecci: centrocampista, regista, sapeva correre e impostare, piedi e cervello. Indispensabile, come lo era Claudio Sala“.

Sala era il Poeta. Aveva fantasia e astuzia; sapeva ispirare la manovra d’attacco, andare sul fondo e crossare. Era un autentico fuoriclasse. E sempre alla ricerca delle giuste imbeccate per Graziani e Pulici, ovvero i gemelli del gol. Graziani stava al centro, bravo con tutti e due i piedi e con un eccellente colpo di testa. Era un giocatore generoso e che tornava per dare una mano. In una parola: moderno nel modo d’interpretare il suo ruolo. Pulici aveva una straordinaria forza fisica e colpi improvvisi. Amava partire da sinistra e da quella parte puntava la rete per fare molto male.

A Radice riuscì l’impresa nel 1975-76 e l’anno dopo, nel 76-77 fu ancora gran calcio. Il Toro finì secondo alle spalle dalla Juve, cinquanta punti contro cinquantuno giocando anche un calcio più bello dell’anno dello scudetto. Durò cinque anni l’idillio tra il tecnico e la squadra granata ma per tutti Radice rimase, sempre e comunque, un sergente di ferro pieno d’umanità che voleva gli uomini al servizio del collettivo. Il gruppo prima di tutto e prima di tutti.

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