Nacque a Montevideo il 28 luglio del 1925; da Camogli proveniva il nonno paterno Alberto, un macellaio emigrato in sud America agli inizi del Novecento. È considerato uno dei più grandi calciatori nella storia del calcio e in tanti lo ritengono il migliore calciatore uruguaiano di tutti i tempi. Occupò i ruoli di interno sinistro e successivamente di regista. Juan Alberto Schiaffino era soprannominato Pepe: la madre prese a chiamarlo così sin da bambino per sottolinearne il carattere vivace. In Uruguay fu anche ribattezzato El dios del fútbol. Schiaffino era introverso per natura e amava sempre dire quel che pensava; ciò gli procurò problemi di coesistenza con allenatori e compagni. E squalifiche. Figlio di una casalinga e di un impiegato, Schiaffino comincia a giocare a 8 anni. Nel 1937 gioca con l’Olimpia, il suo primo vero club. Nel 1942, grazie anche al fratello Raul già nella rosa della prima squadra, entra nel settore giovanile del Peñarol. Schiaffino fa diversi lavori: fornaio, commesso di cartoleria, operaio in una fabbrica di alluminio. Però è talmente bravo che a 18 anni è già titolare. Centrocampista dal fisico longilineo era in grado di fare più cose. In possesso di una tecnica davvero unica aveva un gran feeling con il gol in virtù di un tiro preciso. “Un interno sinistro molto abile nella rifinitura dotato di un’ottima visione di gioco in grado di leggere in anticipo lo sviluppo del gioco”, così ebbe a dire Gianni Brera. Sin da giovane dimostrò di avere grande talento e così nel 1950 viene convocato per la coppa Rimet in Brasile. Brasile-Uruguay non è la finale, perché in quell’edizione a decidere il vincitore sarà un classico girone all’italiana. E’ solo l’ultima partita e al Brasile basta un pari per diventare campione del mondo. I quasi 200.000 del Maracanà aspettano l’apoteosi. Segna Friaca e il Brasile è in paradiso. Varela, il capitano dell’Uruguay ha lo sguardo fiero e promette guerra. Schiaffino prima pareggia punendo il portiere Barbosa e poi offre a Ghiggia l’assist per un leggendario 2-1. Maracanà in silenzio. Uruguay campione e Brasile nel dramma.
«Schiaffino fu l’imprevisto che mise a tacere ogni nostra ambizione» (Flávio Costa, allenatore del Brasile ai mondiali del 1950). Schiaffino fu nominato, tra l’altro, miglior giocatore del mondiale. Schiaffino gioca qualche altro anno nel Peñarol. L’Italia lo chiama ed è difficile resistere alle sirene italiche. Firma per il Milan. Un giornale di Montevideo titola: «Il Dio del pallone ci ha lasciato. Una perdita irreparabile». Il Milan lo acquista nel 1954 per 52 milioni di lire. Somma neanche tanto elevata se si considera il valore tecnico del calciatore. Pepe sbarca in Italia a 29 anni compiuti, nel pieno di una carriera che promette ancora tanto; è un centrocampista universale, sa fare tutto e sa interpretare con largo anticipo le diverse fasi di gioco. Cesare Maldini, suo ex compagno di squadra, disse tempo dopo che Schiaffino era munito di un radar al posto del cervello. Anche Gianni Brera gli riserverà grandi parole d’elogio: «Forse non è mai esistito regista di tanto valore. Schiaffino pareva nascondere torce elettriche nei piedi. Illuminava e inventava gioco con la semplicità che è propria dei grandi. Aveva innato il senso geometrico, trovava la posizione quasi d’istinto». La posizione di regista gli permetteva di condurre la manovra e di dettare i tempi a tutta la squadra. Il Milan vince, con il furiclasse uruguaiano, tre scudetti e sfiora la vittoria finale nella Coppa dei Campioni del 1958. In totale con il Milan disputò 171 partite, segnando 60 reti. Arriva anche a vestire la maglia azzurra. E’ il periodo dell’apertura agli oriundi e Schiaffino mette insieme 4 presenze. “Pepe” chiude la carriera nella Roma mentre la tifoseria milanista insorge. Ha più di 35 anni e il fisico non è più quello di un tempo. La Roma paga la bellezza di 102 milioni di lire per assicurarsi le sue prestazioni. Il giorno della morte di Schiaffino, avvenuta a Montevideo il 13 novembre 2002, il Senato della Repubblica uruguayana lo onorò con un tributo speciale. Jorge Larrañaga chiese che nell’ordine del giorno ci fosse uno spazio per rendergli omaggio: così fece un discorso come riconoscimento per la sua carriera.