Milano, 20 aprile 2010. La sfida era importante. Lo stadio sarebbe stato tutto esaurito. Ancora una volta gli interisti mostravano il loro volto d’innamorati dichiarandosi pronti ad accogliere le armate all’interno del Tempio, con tutto il calore che si può riservare a degli uomini che avrebbero giocato non una partita ma “la partita”. Sembravano trascorsi decenni dalla fase a gironi quando il Barca di Guardiola ci mise k.o; all’angolo, quasi impauriti, incassammo, al Camp Nou, una sconfitta cocente ma salutare. Due a zero. L’Inter, da quel momento, crebbe e divenne una squadra dotata di carattere e temperamento; incominciò a conoscere i modi nonché i mezzi per spaventare e colpire il nemico, qualsiasi nemico. Incominciò anche a conoscere se stessa. Mise i cingoli e vestì l’armatura per mostrare all’universo il cuore forte dei suoi indomiti guerrieri. Per una notte avremmo dovuto essere spartani e ridurre Atene in brandelli. Ovvero, in una parola, vincenti. L’atmosfera si preannunciava molto calda, pronta a diventare incandescente e irrespirabile per i blaugrana. Mai come in quella semifinale di Champions il pubblico sarebbe dovuto essere il dodicesimo in campo. E, infatti, lo fu.
Vivemmo una vigilia tranquilla. Moratti, sempre molto protettivo, scelse di stare in silenzio accanto alla squadra. Era sufficiente che parlasse Josè. Si, perché Mourinho catalizzò ancora una volta l’attenzione del mondo. Mille i microfoni alla ricerca dei segreti e strategie che il Vate di Setubal avrebbe utilizzato per battere il Barca. Josè fu ermetico. “Messi era uno dei tanti e la battaglia avrebbe riguardato il confronto tra due squadre”,ipse dixit J. M. Nessun timore reverenziale e nessuna paura. Solo rispetto per il valore indiscusso della squadra più forte del pianeta alla quale, tuttavia, concesse lo stesso numero di probabilità di vittoria dell’Inter … 50%. Ma un’affermazione colpì l’uditorio: “anche l’Inter, nel tempo, era diventata forte”. Fu un monito e un avvertimento. Ciascuno avrebbe sfruttato le sue differenti astuzie e armi. L’Inter era ormai una squadra temibile e forte di una credibilità internazionale. Quasi un prodotto di laboratorio dove tutto funzionava ed era omogeneo al disegno di squadra che Mou aveva in mente sin dal suo arrivo a Milano. Creare un’armata dove ciascun reparto si saldava all’altro, dove la forza era espressione di undici legionari tenuti insieme dal coraggio, dal sacrificio e dall’ abnegazione. E da un gioco di artisti. Dove anche Eto’o, l’espressione massima del castigatore d’area, avrebbe potuto fare il difensore per il bene della squadra e giocare da esterno come un pendolo.
Da qualche parte tutto era già stato archiviato e recensito. “Barcellona troppo forte e nelle due partite Messi & Company ci avrebbero divorato”. Ci piace pensare che Josè espose questo messaggio nell’armadietto dei suoi ragazzi per dare la caricare alla squadra così da renderla cattiva nell’animo e grintosa nella forza.
Lo stadio fu una roba pazzesca. Il calore della gente nerazzurra lo trasformò in una polveriera e quando le squadre scesero in campo si generò una forma di unione spirituale tra pubblico e squadra. Alle 20.45 il portoghese Olegario Benquerenca fischia l’inizio della partita.
L’Inter parte e presidia subito ogni zona del campo. Il biglietto da visita di Mou fu Milito, Pandev e Eto’o in avanti e Wes dietro con l’incarico di ispirare, suggerire ma anche far male. Guardiola dispone il suo Barcellona a prescindere dall’avversario di turno. Gli spagnoli sono irriverenti, sino a sconfinare, spesso, in una sana presunzione di superiorità; è come se recitassero il solito copione fatto di un’estenuante possesso palla che ha come scopo quello di addormentare, stordire e colpire l’Inter al momento opportuno.
Il momento giusto arriva perché Maxwell ci pone parecchio in difficoltà con la sua velocità; al 19° imbecca Pedro che fulmina Julio Cesar con un tiro molto forte che accarezza la terra in tutto il suo viaggio, prima d’insaccarsi in rete. Altre volte l’Inter sarebbe crollata. Ma non quel giorno. Il nostro pressing diventa oppressivo. I centrocampisti blaugrana vengono attaccati continuamente, Pandev si prende cura di Dani Alves e Wes, ispirato come Michelangelo, mostra di avere i tempi giusti per incunearsi con pericolosità tra le maglie del centrocampo e difesa catalane. Messi viene guardato a vista a seconda della zona che occupa; non un marcatore fisso ma 80.000 come gli spettatori del Meazza. Ibra, l’inconsapevole, gioca per l’Inter. Eto’o, conscio del proprio ruolo, è un instancabile motore a propulsione nucleare. Crea e apre varchi per il Principe. I nostri prediligono la velocità e i passaggi di prima. Aspettiamo e andiamo via in contropiede. In modo velenoso. Quando attacchiamo in modo serio e deciso la loro difesa pare non capirci nulla. Milito prima sbaglia un goal facile e poi, al 30°, serve a Wes il goal del pareggio che l’olandese non sbaglia. Esplode S. Siro perché si ha l’impressione che i nerazzurri stiano costruendo l’impresa. Si va al riposo.
L’impressione, avuta prima dello scadere del primo tempo, è presto confermata perché l’Inter che rientra in campo è una belva. Irrompe sul match e in meno di quindici minuti distrugge il Barcellona. Al 48° Maicon segna su assist di Milito. Julio compie un miracolo su un colpo di testa di Busquets. Passano dieci minuti e Motta s’impossessa di un pallone che scambia con Eto’o; cross del Re Leone per il colpo di testa di Wes che chiama Milito al goal. Fa tre a uno. Ancora Julio salva sua una punizione insidiosa calciata da Messi e Lucio dice no a Pique salvando sulla linea di porta un goal che sembrava fatto.
L’impresa è compiuta. Ci attenderà il ritorno a Barcellona ma dei cinque goal, invocati e indicati come sicuri da Ibrahimovic, non si avrà traccia.
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