A Milano, quel giorno, un temporale annunciò l’avanzata nerazzurra. Dienst fece giocare lo stesso. Nessuno ci avrebbe spaventato e niente ci avrebbe intimorito. Le avverse condizioni metereologiche avrebbero ingigantito la tempra e la forza dei nostri. I tifosi avevano aspettato quel momento in tutti i modi. 85.000 a S. Siro, la loro risposta. Giocarsi la finale e per giunta in casa propria sembrava un segno del destino per una squadra da tramandare ormai alle future generazioni. Le battaglie con l’Independiente, tempo prima, avevano fatto il giro del mondo; il cuore e la grinta perché a Buenos Aires non passi se non liberi i cingolati. Cronache che sembravano pura invenzione a beneficio di una favola ma tutto era reale; l’ostilità sugli spalti era un felice connubio con la ferocia e l’aggressività in campo. L’immagine dell’Inter non era più quella di una semplice squadra ma di una cosa molto simile ad un’armata da guerra pronta a triturare ogni campo, ogni avversario e le difese poco potevano. Così era stato anche per il Real Madrid di Gento e Puskas l’anno precedente. Se vincere è complicato, ancora più difficile è ripetersi, diceva un antico adagio.
Helenio era assurto al ruolo di Cesare della nuova era morattiana. Sbarazzati del Liverpool mentre il Benfica, tra gli altri, aveva mandato a casa Real Madrid e Vasas. Eusebio era il prezzo del biglietto. La pioggia nulla potè sul cuore caldo dei milanesi e gli italiani affollavano ogni luogo per vedere tutto in diretta. Bedin andava sulla “pantera del Mozambico”, Burgnich agiva su Simoes e Guarneri si occupava della punta Torres. L’attenzione era massima su Coluna che era la ragione guida delle azioni portoghesi. Anche Germano dirigeva sapientemente; lui incarnava una delle anime, parte essenziale dei lusitani. Il Benfica era squadra dal valore incommensurabile per riprendere alcune parole della Gazzetta. Puoi capire il valore complessivo della squadra nerazzurra solo ammirando quel Benfica. Il campo, complice la pioggia, era acqua allo stato puro; difficile tutto, anche il controllo o un semplice appoggio nascondevano insidie. Quelli che non ragionarono più erano i tifosi perché al 42’ del primo tempo l’Inter abbraccia gli dei. Facchetti lancia in avanti, dialogano a stretto contatto Corso e Mazzola per servire Jair da cui parte un tiro neanche tanto forte ma quanto basta per passare tra le gambe di Costa Pereira. L’Inter di H.H era dominio, possesso totale di un pallone che in tre secondi era concepito per piegare il fronte avversario. La trincea era un pubblico variegato che amava. Beneamata ancora una volta e non a caso.
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