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Le grandi squadre: l’Inter di Mourinho

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Tra le grandi squadre merita di essere citata l’Inter di Josè Mourinho una corazzata costruita sulle fondamenta della squadra plasmata negli anni precedenti da Mancini, e ritoccata in estate dopo il primo anno italiano di Mourinho, capace di una cavalcata incredibile fino a un maggio magico quando in meno di un mese i nerazzurri conquistarono (nell’ordine) Coppa Italia, Scudetto e la tanto attesa (45 anni) Champions League.

L’uscita agli ottavi a Manchester dell’anno prima consegna le indicazioni vincenti al tecnico portoghese che in estate si muove con precisione sul mercato, acquistando: un centrale esperto in difesa (Lucio), un centrocampista dalle geometrie facili (Thiago Motta), un trequartista di qualità (Sneijder) e un cecchino implacabile al posto di un Adriano impalpabile (Milito). Poi la ciliegina sulla torta: Eto’o e soldi per Ibrahimovic.

Acquisti azzeccati per qualità tecniche ma soprattutto per esperienza internazionale. Un mix imprescendibile se si vuole vincere in Europa. La prima parte (agosto-dicembre), in cui i nerazzurri volano in campionato, ma vengono travolti (non tanto nel risultato 2-0, ma dal punto di vista del gioco) a Barcellona dell’ex Ibra.

Una mazzata che mina la fiducia del gruppo, anche perché la qualificazione per gli ottavi di Champions si decide all’ultima giornata a Kiev, dove serve vincere e dove invece ad aprire le danze è l’ex incubo rossonero Shevchenko. Tutto sembra perso, finito, come sempre. E invece, grazie anche ai cambi super offensivi (per usare un eufemismo) di Mourinho, l’Inter la ribalta nei minuti finali.

Prima la zampata di Milito, poi proprio all’ultimo respiro il tap-in di Sneijder sulla non perfetta del portiere avversario. Il destino decise di mandare un primo segnale. Kiev fu il primo e vero spartiacque della stagione interista. Il secondo segnale arrivò due mesi dopo, a Londra, per il ritorno degli ottavi di Champions contro il Chelsea di Ancelotti forte del sofferto, importante, ma fragile 2-1 di San Siro.

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La squadra ci arriva dopo un gennaio non esaltante in campionato, ma soprattutto con un cambio radicale di modulo imposto da Mourinho. Una rivoluzione copernicana del tecnico lusitano, la seconda in un solo anno nerazzurro dopo l’abbandono del fedelissimo 4-3-3 per il più rodato rombo manciniano. Ma con il ritorno di Goran Pandev a Milano, lo Special One vara il 4-2-3-1 che negli anni successivi verrà ripreso dalle maggiori squadre europee.Una variante tattica decisiva, così come il pieno recupero fisico di Thiago Motta.

Due nomi non certo altisonanti, ma decisivi nel resto della stagione. Al Bridge, dunque, l’Inter scaccia per sempre l’incubo ottavi di finale e si scopre finalmente grande. Forte. Pronta. Eto’o fulmina Cech, l’Inter gioca bene e vince, passa ai quarti, dove non ha problemi con il modesto CSKA Mosca, ma qualcosa è cambiato veramente nella testa dei giocatori.

Lo hanno capito: possono vincere tutto.

Anche la Champions. L’esaltazione s’infrange però subito di fronte al sorteggio che mette di fronte Zanetti e compagni al Barcellona di Messi e degli invincibili, ma anche per colpa di un campionato che si allontana sempre di più dopo il ko di Roma.

Ci penserà però ancora una volta il destino – questa volta vestito con la maglia di Pazzini (doppietta ai giallorossi di Ranieri con la casacca della Sampdoria) a restituire ai nerazzurri quella vetta della classifica che non abbandoneranno più.

Il 20 aprile 2010, l’Inter schianta – in rimonta – 3-1 il Barcellona degli invincibili a San Siro in una delle più belle partite della stagione. Il ritorno è una partita epica. Clima ostile, una città intera contro e pronta a tutto per la “remuntada”. Pronti a tutto per raggiungere la finale di Madrid, “un’ossessione per loro, un sogno per noi”, come spiega Mourinho alla vigilia. Frase entrata di diritto nel libro della storia del grande calcio.

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Camp Nou che si esalta al rosso (ingiusto) a Thiago Motta già nel primo tempo. Ne viene fuori una partita d’altri tempi, con la barricata interista che resiste a ogni tipo d’urto blaugrana, sorretta dalle parate di Julio Cesar, dal muro Samuel-Lucio e dal sacrificio di tutti, a cominciare dal grande ex Eto’o nel ruolo di terzino. L’Inter perde (1-0), ma vola a Madrid. In finale.

E c’è sempre il destino a fare da contorno nell’ultimo mese decisivo per la storia. Questa volta travestito da un Principe argentino che di nome fa Diego, e di cognome Milito. E il tutto parte proprio il 5 maggio, una data storicamente amara per chi ha sangue nerazzurro nelle vene, con la prima firma del Principe che griffa la Coppa Italia vinta all’Olimpico contro la nemesi italiana di quella stagione: la Roma di Ranieri. Giallorossi che non riusciranno nemmeno a scucire lo Scudetto dal petto di Zanetti e compagni, grazie al successo del16 maggio a Siena. Sempre 1-0. Sempre Milito. L’atto finale è al Bernabeu, contro il Bayern Monaco. Ma il copione sembra già scritto, e tutti sembrano già conoscere l’esito di quella finale. Un copione griffato, ancora, Diego Milito che questa volta appone la firma per due volte per il 2-0 finale che riconsegna il tetto d’Europa all’Inter dopo 45 anni. Da papà Angelo al figlio Massimo, dal mago Herrera allo Special One Mourinho.

Dalla Grande Inter all’Inter del Triplete. Il cerchio è chiuso.

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