Gli argentini che fecero l’impresa
Dietro il Triplete di Josè Murinho quattro grandi alfieri argentini: Zanetti, Samuel, Cambiasso e Milito
Gli argentini che fecero l’impresa. Il marmo è il supporto, la memoria lo strumento. Chi vive certi attimi ha bene in mente, come in pochi fotogrammi, tutto il vissuto che ha preceduto il formarsi della Grande Inter di Josè Murinho.
Tutto nasce con una rivendicazione espressa e chiara. Dopo la monumentale Inter di Facchetti e Mazzola si deve trovare la giusta collocazione all’Inter di Mou.
Difficile paragonare o accostare epoche lontane e uomini così diversi per modo di giocare e stare in campo.
Una cosa però è chiara; il Triplete è roba da privilegiati del calcio. Pochi ci arrivano, tanti ci provano o dicono di provarci ma pochi ci riescono. Nessuno in Italia; neanche il Milan di Sacchi o la Juventus di Lippi, per restare nella modernità. Nessuno.
Quando il tempo trascorrerà inesorabile anche l’emotività che guida la narrazione si attenuerà. Allora nei libri troverà spazio il romanzo di una vicenda unica e speciale.
Il romanzo vive di uomini e delle loro imprese. Vive delle violente accelerazioni di Zanetti, delle inzuccate non solo difensive di Samuel, del rigore tattico del Cuchu e della spavalderia implacabile sottorete del Principe.
Zanetti, il Capitano, ha frantumato ogni record esistente. Ha lasciato un’eredità pesante e variegata. La parte più importante è legata ad un calcio che non esiste più; l’attaccamento alla maglia, il rispetto dell’avversario, la lealtà nei confronti di tutti (anche arbitro e tifosi).
Espressioni, queste, legate a un’epoca i cui certi valori esistevano e avevano contorni nitidi. Zanetti era così riconoscibile anche dai suoi avversari. Una delle sue vittorie più belle. La bacheca era il cuore di un vero guerriero.
Quella invece più immediata è costituita dalla sua infinita falcata, dalle sue interminabili percussioni in ogni zona del campo che commentatori e radiocronisti hanno accompagnato con voce impazzita e piena d’enfasi.
Samuel, il Muro argentino, fuoriclasse puro. Una diga a protezione della difesa. Insuperabile e più forte degli infortuni. Potente fisicamente, sovente più forte anche dei portieri avversari.
Quello che di Samuel faceva sobbalzare era la sua arte d’innalzare la dimensione romanzesca della squadra alle sue più alte espressioni.
Il duello, inteso come sfida, non è solo un ricordo legato ad un passato remoto.
The Wall ha rispolverato il confronto tra due forze ritagliando un’arena personale in cui esibire fatica e muscoli. Oltre la forza anche dedizione, cura e impegno. Di poche parole, preferiva la disputa con il malcapitato di turno. E gli piaceva vincerla.
Cambiasso, il Cuchu, un direttore d’orchestra con più di 300 partite con la maglia nerazzurra. Grinta e rigore tattico.
Siamo nella parte nevralgica del campo dove occorre fermare e ripartire. La sua ottima visione di gioco è una cosa che non dimenticherò mai così come lo scetticismo che precedette il suo arrivo a Milano.
Il Real Madrid non riconobbe l’esatto valore di questo ragazzo e lo regalò all’Inter. Un autentico affare.
Quando a Madrid lo vidi sollevare la Champions pensai che il destino aveva approntato per il Cuchu l’esatta ricompensa personale. L’ordine delle cose, principio che lui amava applicare in campo, era stato finalmente ricostituito.
Lui si trovava proprio nel posto giusto e al momento giusto.
Milito, il Principe. La concretezza, l’essenza del calcio. Il goal. Voglio ricordarlo così.
L’esaltazione dello spirito umano dimorava a Madrid quel giorno, per non andare più via. Vantaggio del Principe in cassaforte. 45 minuti non sono niente, ripeto dentro di me!
Ho sempre pensato che quel giorno, i ragazzi, non fossero in undici. Era come se altri eroi di un glorioso passato, con il trascorrer del tempo, si aggiungessero a quelli in campo.
Allora Giacinto presidiava la sua fascia di competenza e Meazza affiancava il Principe.
Anche il giovane Cucchi era pronto ad entrare. H. H era in piedi con Mou e Prisco soffriva in tribuna.
Era come se l’Inter diventasse sempre più forte. E con il sostegno anche di coloro che non erano lì, fosse assurta, come Ercole, al rango d’invincibile. Intanto Julio sventava deciso su Muller e abbatteva l’ardore teutonico.
Al 70’ il Re Leone avanza, danzando, con i ritmi del suo paese; si gira e si accorge di Milito, che fa per allargarsi sulla fascia.
L’incedere dell’argentino è elegante come un tango di Astor Piazzolla. I passi e i dribbling del Principe sono ubriacanti mentre Butt e il resto della Germania sono ai nostri piedi.
Ancora oggi, quando ci penso, è come se continuassi a bere e a ubriacarmi di felicità.